Anche in Italia si comincia a studiare in modo scientifico il problema del gender pay gap, la differenza salariale tra donne e uomini, cronico problema del mondo del lavoro femminile italiano e non solo.
Lo scorso marzo sui giornali tedeschi aveva fatto un certo scalpore la sfilata di borsette rosso (deficit) sotto la Porta di Brandeburgo organizzata dalla Business and Professional Women tedesca in occasione dell’Equal Pay Gap tedesco, ispirato a un modello nato negli USA, che adesso gode del Lilly Ledbetter Fair Pay Act. Era stato scelto il 20 marzo perchè una donna tedesca, per guadagnare quello che ha guadagnato un uomo nel 2008, avrebbe dovuto lavorare tutto l’anno scorso e fino a quel giorno.
Ieri l’Osservatorio sul diversity management della SDA Bocconi, in collaborazione con Hay Group, ha presentato una ricerca sul gender pay gap italiano.
Lo studio ha analizzato un campione di 97 grandi e medie aziende (e relativi 31.000 osservazioni retributive individuali) nel periodo 2005-2008 aggiungendo ai tradizionali indicatori (età e settore di appartenenza) un punteggio basato sulla complessità della posizione, misurata in base a know how, problem solving e accountability individuale.
In Italia una donna guadagna, in media, tra il 22,8% (retribuzione annua lorda) e il 25,2% (retribuzione globale annua, con parte variabile) meno di un uomo. Ma se, anziché dividere il monte retribuzione delle donne per il numero di donne che lavorano e fare altrettanto con gli uomini, confrontiamo gli stipendi dei due sessi a parità di incarico, anzianità e azienda, la differenza si riduce al 3%.
La vera discriminazione non si nasconde quindi nelle singole prassi retributive aziendali ma in un contesto sociale e culturale che “pesa” in modo differente il lavoro delle donne e degli uomini.
Andando ad analizzare inquadramento e struttura organizzativa, le donne sul totale dei dirigenti in Italia sono il 13%, i quadri 23% e gli impiegati 37%. Nell’area commerciale (la meglio retribuita) il 33%, in posizioni di linea il 20% e in quelle di staff il 39%.
Quali le soluzioni proposte dallo studio? A livello organizzativo, attuare buone prassi che guidino le politiche retributive, gestionali e di sviluppo delle aziende. A livello individuale, sviluppare percorsi formativi per aiutare le donne ad affermare e valorizzare le loro specifiche competenze.
Elemento importante della ricerca un confronto con alcuni stati europei (per ora sono stati confrontati i dati di Francia, Spagna, Belgio, Germania. Interessante sarà capire che cosa succede qualche il panel includerà anche i paesi nordici): tra il 2005 e il 2008 la percentuale di donne tra i lavoratori italiani è aumentata dal 26% al 30%, portando la femminilizzazione del mercato italiano al di sopra di quella tedesca (27%), ma ancora lontana da quelle spagnola (38%), francese (42%) e belga (45%).
La differenza tra retribuzione annua lorda maschile e femminile italiana, vicina al 23%, è maggiore di quella della Germania (20%), ma più contenuta rispetto a Spagna (27%), Belgio (29%) e soprattutto Francia (42%).
Facendo un confronto diretto tra Italia e Spagna sul gender gap nelle categorie professionali si scopre una curiosa differenza: in Italia è praticamente superato per gli impiegati (-2%), quasi risolto per i professional (4%), in crescita per il middle management (10%) e gli executive (12%). La Spagna presenta invece una curva opposta: impiegati (22%), professional (11%), middle management (9,3%) e executive (-3%). Ossia: le donne impiegate se la passano meglio in Italia, le dirigenti è meglio che se ne vadano in Spagna!
PS1: da annotarsi i prossimi appuntamenti dell’Osservatorio: Forum Diversity il 28/10 su maternità e costi aziendali e nell’aprile 2010 sull’intercultura in collaborazione con Metropoli; gli interventi alla WIN conference l’8-9 ottobre a Praga e a Gammadonna il 26-27 novembre a Torino
PS2: un altro punto di vista sul convegno su JobTalk e su La revolution en rose.
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