Un punto di vista piuttosto discutibile è quello di "Schumpeter" (recente rubrica dell'Economist dedicata a business, innovazione e inmpreditoria in onore del brillante economista austriaco) titolato Womenomics. Feminist management theorists are flirting with some dangerous arguments.
Secondo il redattore della rubrica, la prima generazione di donne di successo (es. la Thatcher) aveva lottato per essere giudicata con gli stessi parametri con cui venivano valutati gli uomini. “I never miss, I never admit mistakes and I am always correct” sosteneva Dong Mingzhu, capo di una multinazionale dell’aria condizionata.
Il nuovo femminismo, invece, propone una nuova lettura, slegata dalle vecchie regole gerarchiche. Si cita come esempi del today’s most influential feminists A.Wittenberg-Cox e A. Maitland (autrici dell'importante libro Why women mean business, non citato nell’articolo), riprendendo la loro teoria del gender bilingual: l’approccio femminile è meno competitivo e più collaborativo, meno aggressivo e più teso al consenso, meno ossessionato dal potere e più orientato al gruppo. Ciò che Judy Rosener della University of California chiama transformational and interactive management. Le qualità femminili (collaboration and networking skills) stanno diventando sempre più importanti nel mondo del business in cui le organizzazioni si fanno meno gerarchiche e più a matrice.
La tesi della differenza di genere – in cui sarebbe caduta anche la venerable McKinsey - non convince il redattore della rubrica che suggerisce alle donne di ignorare le sirene del nuovo femminismo (e fin qui la sua posizione può avere senso) e non abbandonare old-fashioned meritocracy just at the time when it is turning to women’s advantage (scusi neo Mr. Schumpeter, ma dove c’è mai stata una reale meritocrazia? E non mi pare che si tratti di un problema meramente italiano. E neanche solo delle donne).
I primi commenti all'articolo contengono già molte chicche...
To be continued...
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